Fame emotiva: come fermarsi un attimo prima?
Oct 25, 2021Innanzi tutto è bene intenderci sul significato che diamo al termine fame emotiva. Nel mio caso, prima ancora di occuparmene professionalmente, sarei stato in grado di dirlo in modo intuitivo.
Il primo vero passo per me è stato quello di imparare a riconoscere i “sintomi” della fame emotiva. E cioè qualcosa che abbiamo imparato a chiamare “fame” ma che non ha nulla a che vedere con la fame, quella fisica intendo.
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Spesso scambiamo certe sensazioni per fame
I mangiatori emotivi sono soliti scambiare per fame certe sensazioni di malessere che possono essere avvertite nell’area della pancia o dello stomaco.
Perché proprio lì? Perché è così facile credere che quel malessere sia fame?
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Il “cervello” della pancia
Nell’apparato digerente risiede quella che potremmo chiamare la “centrale operativa delle emozioni” di una certa intensità, belle o brutte che siano.
Qualche esempio: quando siamo innamorati non sentiamo le farfalle nello stomaco? Quando abbiamo paura non che la “facciamo sotto”? Ancora: quando siamo in ansia o sotto pressione, non ci si chiude lo stomaco (o ci si apre, a seconda dei casi), ma comunque sentiamo un nodo o un peso proprio lì?
Cervello comunica con le nostre viscere
Il cervello è in costante comunicazione con le nostre viscere, è il sistema di allarme che abbiamo in comune con gli altri animali cerebralmente meno evoluti. Per questo avere che fare con le emozioni che traduciamo erroneamente in bisogno di cibo è così difficile, talmente tanto da sembrare il più delle volte impossibile.
Sai perché? Perché lo è davvero! Il nostro tentativo cognitivo di controllare o tenere a bada le nostre emozioni è destinato a fallire perché l’“ordine” che fa partire l’allarme cibo viene dal cervello istintivo, dal cervello emotivo, quello appunto più “viscerale” che non dialoga con quello cognitivo se non in condizioni di relativa calma. Ma quando il sistema d’allarme si è ormai attivato, non c’è forza di volontà che tenga…
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Prevenire è meglio che curare
Torniamo alla domanda iniziale: come fare a fermarsi un attimo prima di addentare quel fatidico primo boccone che tante volte si trasforma nel segnale d’avvio delle abbuffate?
Lo sapevano anche gli antichi: prevenire è meglio che curare.
In questo caso la prevenzione consiste nell’imparare ad attivare l’ascolto profondo e di prendersi cura dei propri malesseri emotivi prima che superino quel livello (che ben conosciamo) che rappresenta per noi il “punto di non ritorno”.
Ascoltarsi è smontare i pregiudizi
L’ascolto consapevole, che è alla base della Mindfulness è un ascolto intuitivo che, grazie ad un atteggiamento di compassione e gentilezza nei riguardi di noi stessi ci mette nelle condizioni di andare oltre i pregiudizi, oltre quello che “sappiamo già”.
La prima fondamentale scoperta che ho fatto in questo senso riguarda proprio il presunto “non potersi fermare dopo aver dato il primo morso compulsivo”.
Chi lo dice? Io stesso ne ero convinto, prima di fare esperienza del fatto che, grazie appunto alla consapevole presenza, posso in realtà fermarmi in qualunque momento.
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Fino a prova contraria
Possiamo mettere alla prova le nostre convinzioni limitanti utilizzando il piccolo trucco del “fino a prova contraria”.
Così ho fatto io, grazie alla Mindfulness ho cominciato a mettere in discussione ciò che, fino a quel momento, era successo sempre in un determinato modo.
È buffo ma anche molto triste constatare quanto, nel campo della relazione col cibo, i nostri condizionamenti ci inducano a percorrere sempre le stesse strade, a commettere sempre gli stessi errori.
Che senso ha? Eppure se oggi con la macchina imbocchiamo una strada senza uscita, domani ce lo ricordiamo e facciamo una deviazione. Perché con il cibo non succede?
La relazione col cibo è la più antica che c’è
Eccolo il motivo. La relazione col cibo è la più antica che c’è, nasce con noi, cresce con noi, invecchia con noi. Può non morire con noi, ma è il campo su cui è più difficile agire. Le nostre abitudini disfunzionali non sono solo individuali: le ereditiamo dai nostri genitori, i quali le hanno ereditate dai loro genitori e così via, fino all’alba dei tempi.
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Dunque, siamo sconfitti in partenza?
Non scoraggiamoci, la soluzione c’è.
Ritorniamo a sentire e a sentirci
L’unico modo per risolvere una relazione emotiva con il cibo che è causa di sofferenza è di aprirsi alle emozioni. Imparare a riconoscerle, ad accoglierle, a conviverci. Questo atteggiamento è quello che possiamo apprendere da una osservazione meditativa deliberata e costante nel tempo.
La fame emotiva e la fame nervosa sono risposte disfunzionali che il nostro sistema mente/corpo mette in atto per proteggersi dagli stati d’animo dolorosi o percepiti come insostenibili.
I cibi trigger
Non c’è niente di cui vergognarsi, anche perché il cibo, specifiche categorie di cibi, dovremmo dire, soprattutto quelli noti come cibi trigger (cibi innescanti), anche dal punto di vista biochimico, hanno una funzione lenitiva/calmante che è proprio quella che i mangiatori emotivi confondono con il desiderio, appunto, di cibo e a cui danno il nome di “fame”.
C’è qualcosa di meglio che fermarsi un attimo prima
Anziché arrivare a fermarsi un attimo prima (non ci si riesce quasi mai, una volta superato il punto di non ritorno) è più utile imparare a riconoscere alle prime avvisaglie il processo che si sta innescando diventando più esperti di come “funzioniamo”.
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Il potere dell’osservazione consapevole
L’osservazione consapevole (e costante) dei propri processi emotivi, partendo dalle sensazioni corporee grezze nelle quali ciò che chiamiamo “emozione” si traduce, consente di arrivare dall’interno, ossia dalla coscienza profonda di sé, a risultati impensabili, rispetto alla mancanza di regolazione nei confronti del cibo. Se messi a paragone, soprattutto, con la cronologia dei nostri insuccessi ciclici prodotti dalla costrizione, dal tentativo di applicare schemi alimentari rigidi e restrittivi, dal considerare il cibo un nemico da sconfiggere invece di riconoscergli il ruolo di nostra primaria fonte di energia e di vita, come la natura ci insegna.